Il pubblico acclamava il mio nome. Sentivo le
loro voci infrangersi sulla porta del mio camerino, come onde sulla scogliera.
I
riflettori si spensero e le tende del sipario calarono come due palpebre
stanche.
Mi
sedetti sul pouf orlato di organza rosa e mi guardai allo specchio. Le piccole lampadine
che lo incorniciavano si rinfrangevano nei miei occhi, facendoli apparire come due
gemme brillati, appena rinvenute dalla roccia secca. Erano d’un verde raggiante,
più di quanto non lo fossero lontani dalla luce.
Ma
sotto i riflettori e i lustrini, ci ero nata.
Avevo
sempre sognato di fare l’attrice, quando finalmente il fato mi concesse
l’occasione giusta. E da allora a New Orleans non si fece che parlare di me.
Dieci anni. Dieci lunghi anni a lavorare incessantemente e attendere il mio
momento, bussando alle porte, tanto da non sentire più le nocche. E infine ci
riuscii.
La
Venere di Vetro, mi chiamavo, per via
del mio aspetto diafano e delicato. All’epoca le donne andavano di moda così,
snelle e longilinee. Sembravamo tutte libellule. Erano gli anni ’30 e le curve
prorompenti, dovettero attendere qualche altro anno, prima di esplodere dai
corsetti.

Rimasi
nella penombra, attirata dalle luci dello specchio, come una piccola falena.
Accesi
una candela alla lavanda. L’odore speziato e dolce della cera si diffuse
nell’ambiente, penetrando nella mia mente come fosse una spugna.
Mia
madre.
Pensai
a lei e ai suoi viaggi in Francia. In Provenza, per l’esattezza.
Mi
portava spesso sacchetti di seta al cui interno giacevano piccole foglioline di
lavanda essiccate, pronte a svegliarsi e solleticare i sensi.
Lei
era francese e per un curioso scherzo del destino, conobbe in un ristorante
della Tour Eiffel, mio padre; americano fino all’osso.
Commenti
Posta un commento